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CARINI_relazione 23 giugno 2010

Michele Carini – Relazione II anno – Fonti e forme dell’umorismo nieviano

 

 

Caro Sciascia,

ho letto Il quarantotto. Come fedele del Nievo non posso che rallegrarmi di quest’omaggio siciliano al romanziere friulano, in uno scorcio così abile e nitido. E poi ci si sente il divertimento che devi aver provato a scriverlo, perché certo non c’è niente di più divertente che scrivere roba storica. […]

Italo Calvino[1]

 

 

Per esemplificare la varietà delle forme dell’umorismo nieviano, vorrei partire da alcuni esempi testuali. Per poterlo fare, può essere utile contraddirmi e iniziare da due tele: Bonaparte varca il Gran San Bernardo[2] di Jacques-Louis David e Napoleone Primo Console[3] di Andrea Appiani. Renaud Temperini, nel secondo tomo dedicato alla pittura francese del progetto editoriale pubblicato da Electa, scrive:

 

Benché avesse solennemente dichiarato di volere per il futuro seguire i princìpi, piuttosto che gli uomini, David venne rapidamente soggiogato dal fascino di Napoleone Bonaparte. Poco dopo il colpo di stato del 18 Brumaio, fu incaricato di celebrare la recente campagna d’Italia con un Bonaparte varca il San Bernardo […] incurante della verità storica.[4]

 

I risultati della folgorante campagna d’Italia contribuiscono a formare il mito napoleonico: con esso si elaborano anche i caratteri dell’iconografia; nel quadro di David, del quale non pretendo di dare una lettura formale, si evidenziano i materiali della costruzione del mito pre-romantico (e, già, neoclassico): il nome di Napoleone è inciso nella pietra, come quello dei condottieri che lo precedettero, Annibale e Carlo Magno; l’impeto sanguigno del destriero è dominato con fermezza, senza sforzo, da un Napoleone che risulta anche l’unica figura non piegata dalle difficoltà del percorso; gli agenti atmosferici non influiscono sul suo portamento, né il suo sguardo lascia trasparire moti d’incertezza: il Generale fissa lo spettatore, indicandogli il chiaro progetto che sta perseguendo.

Andrea Appiani, poco prima di conoscere David, scelse di ritrarre Napoleone con un registro meno impetuoso:[5] in un interno, Bonaparte è colto in un momento di apparente distrazione dagli studi delle carte topografiche; alla violenza dell’elemento naturale, si sostituisce il gioco di linee dorate della sontuosa decorazione; ma, anche qui, lo sguardo resta al centro della composizione e distoglie l’attenzione dal contesto, volgendosi affilato oltre i limiti della cornice; i lineamenti appaiono idealizzati, rispetto ad altri ritratti.[6]

 

Nel commento alle Confessioni, comprese nell’edizione ricciardiana delle Opere nieviane, Sergio Romagnoli assicura che «Nievo certamente vide [il ritratto di Appiani]: la villa di Bellagio, infatti, era la residenza estiva della cugina Beatrice Gobio Melzi, discendente di quel Francesco Melzi d’Eril di cui il Nievo parlerà nel cap. XV»;[7] Nievo pone il quadro come elemento di paragone quando Carlino ricorda il suo incontro con Napoleone.

 

(Capitolo X 137-152)

Il General in capite Napoleone Bonaparte (così lo chiamavano allora) dimorava in casa Florio. Chiesi di abboccarmi con essolui affermando di avere a fare gravissime comunicazioni sopra cose avvenute nella Provincia, e siccome egli mestava in fin d’allora nel torbido coi malcontenti Veneziani, così mi venne concessa un’udienza. Questo perché non lo seppi che in appresso. Il generale era nelle mani del suo cameriere che gli radeva la barba; allora non disdegnava di farsi veder uomo, anzi ostentava una certa semplicità catoniana, cosicchè al primo aspetto rimasi confortato d’assai. Era magro sparuto irrequieto; lunghi capelli stesi gli ingombravano la fronte, le tempie e la nuca fin giù oltre al collare del vestito. Somigliava appunto a quel bel ritratto che ce ne ha lasciato l’Appiani, e che si osserva alla villa Melzi a Bellagio: dono del Primo Console Presidente al Vice-presidente, superba lusinga del lupo all’agnello. Solamente a quel tempo era più sfilato ancora, tantochè gli si avrebbero dati pochi anni di vita, ed anzi una tal sembianza di gracilità aggiungeva l’aureola del martire alla gloria del liberatore. Egli sacrificava la sua vita al bene dei popoli; chi non si sarebbe sacrificato per lui?

– Cosa volete, cittadino? mi diss’egli recisamente fregandosi le labbra col pizzo dell’asciugatojo.

– Cittadino generale; risposi con un inchino lievissimo per non offendere la sua repubblicana modestia; le cose di cui vengo a parlarvi sono della massima importanza e della maggiore delicatezza.

– Parlate pure; egli soggiunse accennando il cameriere che continuava l’opera sua. Mercier non ne sa d’italiano più che il mio cavallo.

[…] Monsignore e il Capitano che s’erano accovacciati in castello udirono con terrore il racconto del mio colloquio col generale Bonaparte.

– L’avete proprio veduto? mi chiese il Capitano.

– Capperi se l’ho veduto! si faceva anzi la barba.

– Ah si rade anche la barba? io invece avrei creduto che la portasse lunga.

– A proposito, saltò su Monsignore, dopo la morte della Mamma (un lungo sospiro) non mi sono più raso nè il mento nè la chierica. Faustina, dico, (anche costei era tornata) mettete su la cocoma dell’acqua!...

 

Anche Nievo ritrae Napoleone in un interno; non è solo, però: Carlino dialoga con il «Gran Liberatore», che si trova «nelle mani» di un terzo personaggio, Mercier, silenzioso cameriere, ignaro della lingua italiana. È lecito, quindi, indurre che tutta la conversazione sia scandita da colpi di forbici e da gesti calcolati, che eventualmente aggiustino le ciocche napoleoniche. La fisicità del condottiero è depressa, resa tramite la veloce pennellata del tricolon «magro sparuto irrequieto» e portata, perfino, a dare l’impressione di una morte incombente – non diversamente è ritratto l’assai diverso e nevrotico personaggio di Giulio Del Ponte. Unico avverbio che connota l’azione del Generale è «recisamente», riferito al piglio con cui concede udienza, ma ambiguamente posizionato in modo da riverberarsi sul movimento del pizzo dell’«asciugatojo» sulle sue labbra.[[8]] Prima che Carlino spieghi le sue ragioni, Napoleone compie un ultimo gesto, per rassicurarlo: «accenna il cameriere», dichiarandone l’impossibilità di comprensione.

Ippolito Nievo compose le Confessioni in pochi mesi, nella prima metà dell’anno 1858; Napoleone Bonaparte fu in Udine, dove è immaginato avvenire l’incontro, nel 1797, il 18 marzo;[9] Carlo Altoviti «nacque Veneziano ai 18 Ottobre del 1775»:[10] è ottuagenario come voce narrante, mentre rappresenta se stesso, poco più che ventenne, avanzare delle rimostranze al cospetto del Generale, per la condotta dei soldati francesi. Se è lecito porre in relazione l’iconografia ufficiale napoleonica, nello specifico quella riguardante il Napoleone non ancora imperatore, con il ritratto che ne fa Nievo (come d’altronde suggerisce l’autore stesso), risultano evidenti i caratteri di una rappresentazione anti-neoclassica e anti-romantica e, in sintesi, antifrastica: l’intero paragrafo è, inoltre, ritmato da un sistematico contrappunto, che intesse un dialogo interno tra le impressioni di Carlino e i commenti (talvolta anche extradiegetici) dell’ottuagenario. Ne risulta un’impressione visiva di nervosa teatralità, confermata e ulteriormente significata dalle qualità, poi ironicamente rilevate, di «semplicità catoniana» e «repubblicana modestia».

«Chi non si sarebbe sacrificato per lui?», chiede con sarcasmo il narratore, nell’acme della rievocazione: si ribatte che sia un sarcasmo facile, sessant’anni dopo; il meccanismo nominato «paradosso storico» da Maryse Jeuland Meynaud si aziona proprio quando il sorriso nasce dalla frizione tra l’interpretazione della realtà da parte dei personaggi e la possibilità del lettore di smentire tale interpretazione:[11] in questo caso, però, è il narratore medesimo che opera la smentita. È, forse, la rivincita che si prende l’ottuagenario, e attraverso di lui Nievo, per le istanze frustrate del giovane Carlino (le sue richieste di spiegazioni in merito allo stupro e all’uccisione della vecchia Contessa restano disattese, così come Monsignor Orlando e il Capitano Sandracca risultano completamente inconsapevoli del divenire storico in atto): la libertà di un popolo non può essere demandata a un intervento esterno, salvifico e illuminato, perché sicuramente non si confermerà tale; deve piuttosto partire dalla vicenda personale, degna di nota o meno, del singolo individuo.

 

 

Un altro esempio di tonalità differente può essere fornito dalla narrazione del trambusto conseguente all’arrivo della nobile famiglia Frumier a Portogruaro: s’instaura una dinamica di confronto tra la capitale, Venezia, e il piccolo borgo dell’estrema provincia.

 

(Capitolo VI 52-55)

Potete figurarvi che la Nobildonna Frumier appena arrivata ebbe subito intorno una gran ressa di queste leziose. […] Di Veneziane, come dissi, ne viveva a Portogruaro un buon numero; ma tutte appartenenti al ceto mezzano o alla minuta nobiltà. Una gran dama, una gentildonna di gran levatura esercitata in tutti gli usi in tutti i raffinamenti della conversazione, mancava in fino allora. Perciò furono beate di possederne alla fine un esemplare; di poterlo contemplare, idoleggiare, e copiare a loro grado; di poter dire infine: Guardate! io parlo, io rido, io vesto, io cammino come la Senatoressa Frumier. Costei furba come il diavolo si prese gran spasso di tali disposizioni. […] Un giorno ella scommise con un gentiluomo venuto da Venezia di far mettere in capo alle principali di quelle dame penne di cappone. Infatti ella si mostrò in pubblico con questo bizzarro adornamento sul toupè, e il giorno stesso la Podestaressa spiumò tutto un pollajo per ornarsi la testa a quel modo. Però fu essa tanto clemente verso i capponi della città da non insistere in quella moda; altrimenti in capo a tre giorni non ve ne sarebbe rimasto uno col vestimento che madre natura gli diede.

 

Il registro dominante sembra provenire in questo caso piuttosto dalla pungente scrittura giornalistica: stendendo recensioni di eventi culturali, commentando fatti mondani e politici, l’autore affinò una corrosiva vena satirica, tramite la quale movimentò il dibattito di diversi salotti (e non solo): un aspetto del Nievo, quello della produzione giornalistica, di vastissime dimensioni, e che ancora manca di una sistemazione definitiva.[12] Coerentemente al genere citato, si nota in questo brano la mescolanza di alto e basso: «una gran dama, una gentildonna» decora la propria capigliatura con penne di cappone e verifica come altre dame la emulino, se pur «appartenenti al ceto mezzano o alla minuta nobiltà». Al paradosso apertamente comico dell’inedito ornamento si sovrappone il conclusivo paradosso satirico, che vede la Nobildonna Frumier rientrare da questa sua stravaganza, in ultimo, perché «clemente verso i capponi», non verso le altre.

Il cinismo degli strali nieviani lascia trasparire un’intenzione moralistica, non stantia, autentica e, d’altronde, consueta nella scrittura satirica: l’apostrofe iniziale e il commento autoriale creano una complicità con il lettore e la conseguente implicita espressione di un portato valoriale comune: Carlino si serve della Frumier per condannare la vacuità delle «leziose» di Portogruaro, ma contemporaneamente la rappresenta come «un esemplare» di persona spregiudicata e, forse, misera quanto coloro che sberleffa.

 

Procedo celermente, prendendo ora in considerazione un saggio della levità nieviana nella caratterizzazione dei personaggi: il Capitano Sandracca.

 

(Capitolo I 73-74)

Un castello che chiudeva fra le sue mura due dignità forensi e clericali come il Cancelliere e Monsignor Orlando, non dovea mancare della sua celebrità militare. Il Capitano Sandracca voleva essere uno Schiavone ad ogni costo, sebbene lo dicessero nato a Ponte di Piave. Certo era l’uomo più lungo della giurisdizione; e le Dee della grazia e della bellezza non avevano presieduto alla sua nascita.

 

(Capitolo V 167-171)

Il veterano di Candia non se lo fece dire due volte; infilò la scala volando come un angelo, e per quanto la moglie gli stesse a’ panni gridando: di guardarsi bene e di non precipitarsi! in quattro salti fu nella sua stanza ben inchiavata e puntellata. Quel dover passare vicino alle feritoie gli aveva dato il capogiro; e gli parve di stare assai meglio fra la coltre e il materasso. Ai pericoli futuri Dio avrebbe provveduto; egli temeva più di tutto i presenti. La Signora Veronica poi si sfogava, rimproverandogli sommessamente la sua dappoccaggine; ed egli rispondeva che non era suo mestiero quello di affrontare i ladri, ma che se si fosse trattato di vera guerra guerreggiata lo avrebbero veduto al suo posto.

Giovinastri, giovinastri! sclamò il valentuomo stirandosi le gambe. – La trinciano da eroi perchè hanno l’impudenza di sfidar una palla facendo capolino dai merli. Eh, mio Dio, ci vuol altro!… Veronica, non uscir mica di camera sai!… io voglio difenderti come il più gran tesoro che io abbia!

Grazie; rispose la donna, ma perchè non vi siete svestito?

– Svestirmi! vorresti che mi svestissi con quella giuggiola di tempesta che abbiamo alle spalle! … Veronica, sta’ sempre vicino a me… Chi vorrà offenderti dovrà prima calpestare il mio cadavere.

Costei si gettò anch’essa, vestita com’era, sul letto; e da coraggiosa donna avrebbe anche pigliato sonno, se il marito ad ogni mosca che volava non fosse sobbalzato tant’alto, domandandole se aveva udito nulla, ed esortandola a confidare in lui, e a non allontanarsi dal suo legittimo difensore.

 

Una brachilogia informa il lettore del fatto che la «celebrità militare» era «l’uomo più lungo della giurisdizione»: l’autore non si pone neppure il problema di confutare le pretese nobili origini del personaggio; le dissolve con tre rapide proposizioni («sebbene […]. Certo […]; e […]») che spostano l’accento dall’evidentemente fittizio albero genealogico alla caratterizzazione fisica. La bruttezza del Capitano diviene quasi misurabile: il passaggio dalla subordinazione concessiva alla semplice congiunzione copulativa avviene per mezzo di una particella asseverativa, che non conferma nulla a proposito delle origini, ma che fornisce un dato verificabile nei concreti confini della «giurisdizione»; e, infine, sì, l’oggettività della sua scarsa prestanza fisica è suggellata da una clausola di sapore ironicamente mitologico.

Nel capitolo V, invece, Nievo definisce irrevocabilmente i tratti della profonda pavidità del Capitano; non sorprende la sua reazione alla movimentata notte appena vissuta dalla piccola comunità del castello di Fratta: gli indizi che tratteggiavano la mediocrità del Capitano erano già stati precedentemente disseminati; ora ne viene fornita, però, una prova tangibile, nel confronto tra il comportamento del Sandracca e quello della moglie. L’ottuagenario, che ha narrato da poco le prime «gesta» compiute da fanciullo, attua una rapida focalizzazione interna al Capitano, attribuendogli una velocità di pensiero e d’azione degne di un Don Abbondio: la fiducia nella provvidenza futura è accompagnata dall’immediatezza e dalla precisione delle azioni cautelative, con le quali contrastano, per altro, le parole del personaggio. Il sentimento del contrario è acuito dal controcanto della moglie, alla cui aurea mediocritas diventa sovrapponibile anche il punto di vista di Carlino: da tale confronto i gesti e le parole del Capitano riescono caricaturali e iperbolici.

La «guerra guerreggiata», dalle fitte reminiscenze letterarie, furbescamente asseverate dall’anteposizione dell’attributo «vera», avrebbe giustificato l’impegno in prima persona del Capitano e non avrebbe lasciato spazio alla pochezza vanitosa dei «giovinastri»; ci si affianca così al luogo manzoniano, in cui il Padre Provinciale e il Conte Zio convengono nel giudizio negativo sugli impeti giovanili:

 

Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovane; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le… inclinazioni d’un giovane; e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni, (purtroppo eh, padre molto reverendo?) tocca a noi di aver senno pei giovani, e di rattoppare le loro malefatte.[13]

 

Una distorta prospettiva accumunava le insidie di Don Rodrigo ai tentativi di opporvisi di Padre Cristoforo, nell’ottica conclusiva della complicità tra i due anziani interlocutori: il Capitano Sandracca si appropria di questa insofferenza, senza averne nessun merito e neppure impegnandosi a conseguenti azioni correttive – dal momento che l’inghippo era in via di risoluzione per opera dei vari Carlino, Lucillio e Partistagno, mentre egli si ritirava «in quattro salti […] nella sua stanza ben inchiavata e puntellata».

 

Infine, una tipologia umoristica di tutt’altra natura è riscontrabile nelle tensioni metadiegetiche e connotative del discorso, sovente riscontrabili, ad esempio, nelle rubriche poste in apertura dei capitoli.

 

(Capitolo I 1)

Ovvero breve introduzione sui motivi di queste mie Confessioni, sul famoso castello di Fratta dove passai la mia infanzia, sulla cucina del prelodato castello, nonché sui padroni, sui servitori, sugli ospiti e sui gatti che lo abitavano verso il 1780 – Prima invasione di personaggi; interrotta qua e là da molte savie considerazioni sulla Repubblica Veneta, sugli ordinamenti civili e militari d’allora, e sul significato che si dava in Italia alla parola patria, allo scadere del secolo scorso.[14]

 

(Capitolo XII 1)

Nel quale dopo un patetico addio alla spensierata giovinezza si comincia a vivere ed a pensare sul serio: ma purtroppo non ebbi il vento in poppa – Fin d’allora era pericoloso fidarsi alle promesse degli ospiti che volevano farla da padroni: ma gli ospiti, se non altro, furono benemeriti di averci dato la sveglia – Nel frattempo la Clara si fa monaca, la Pisana si marita con S. E. Navagero, ed io seguito a scriver protocolli – Venezia cade la seconda volta in punizione della prima, e i patrioti si ricoverano sbuffando nella Cisalpina – Io resto, a quanto sembra, per far compagnia a mio padre. –

 

(Capitolo XXI 1)

Come io cooperassi a risvegliare in Venezia qualche attività commerciale, principio se non altro di vita, e come il maggiore de’ miei due figli partisse con Lord Byron per la Grecia – Un duello a cinquant’anni per l’onore dei morti – Viaggio di nozze a Napoli di Romania e funebre ritorno per Ancona nel Marzo 1821 – La morte mi toglie il mio secondogenito e fa man bassa sopra amici e nemici – Essa trova un potente alleato nel cholera – Il collegiale di sessantacinque anni.

 

I diversi strumenti utilizzati, che siano l’ironia determinata dalla sequenza di anticlimax, iperbole e antifrasi nel primo caso, oppure l’abbassamento del registro su un piano colloquiale, o, ancora, la chiusura ironica, dopo una serie di episodi alquanto seri, questi diversi strumenti non sembrano assolvere la funzione denotativa generalmente riscontrabile in tale sede paratestuale. Non è un distaccato elenco dei nuclei diegetici fondanti l’intreccio del capitolo introdotto: si tratta piuttosto di segnali linguistici che contribuiscono a determinare nel lettore un orizzonte di attesa, una modalità di approccio al testo.

 

 

Rispetto, dunque, a una materia così variegata, mi sono proposto di condurre un’indagine su un doppio binario: le fonti e le forme. La produzione critica a questo proposito è relativamente limitata, per quanto il carattere umoristico della scrittura nieviana sia registrato pressoché dalla totalità degli studi, anche se, talvolta, indicato con perifrasi o locuzioni sinonimiche.[15] Le fonti che ho iniziato indagare prendono per lo più in considerazione la questione del romanzo: Sterne, Foscolo e Manzoni. Altri autori che vorrei leggere sono Heine e Goldoni; il primo per l’aperta stima espressa dal Nievo al poeta e umorista tedesco, che ha anche tradotto; il secondo per valutare parte degli influssi riconducibili alla tradizione veneta – e per alcuni eventuali riscontri testuali nella tessitura di dialoghi o situazioni connesse alla commedia dell’arte. Infine, per la definizione dei caratteri (e delle libertà) della particolare istanza narrativa, è utile approfondire il tema del romanzo epistolare.

 

Il lavoro sulle fonti è accompagnato da un’opera di censimento e catalogazione degli episodi, dei quali ho cercato, prima, di fornire un ventaglio esemplare: le modalità umoristiche nella costruzione dei personaggi (l’ambito forse maggiormente indagato fin ora), le questioni della satira sociale e della rappresentazione storica e la persistente connotazione del discorso narrativo.

 

 

Un solo rapido saggio di alcuni dati raccolti nella ricerca delle fonti può partire da alcune righe della prefazione di Carlo Levi all’edizione einaudiana del Tristram Shandy:[16]

 

Questo spleen, questa Malinconia, o melancolia, è insieme un sentimento, un temperamento, e, letteralmente, un umore (e solo in questo senso Sterne può dirsi un umorista). È la sua natura, il suo impulso, la sua molla, la sua spinta vitale, e mortale.

 

Non mi addentro in questa sede nelle questioni strettamente sterniane: certamente il rilievo operato da Levi, la sua petizione di principio relativa all’etimo della parola umorista, appare molto adeguata anche per Nievo e conforme alle successive indagini operate, fra gli altri, ma in particolare, da Giancarlo Mazzacurati.[17] In questo senso è impellente la necessità di affrontare la triangolazione Sterne, Foscolo e Nievo, verificando il sotto-genere del romanzo sentimentale e la probabile persistenza di isotipie nelle Confessioni: così, nell’economia complessiva del romanzo, si potrebbero forse recuperare anche quegli afflati emotivi che, talvolta, hanno penalizzato o pregiudicato la ricezione dell’opera.

 

 

 



[1] Lettera a Leonardo Sciascia del 25 settembre 1957; in Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, Torino, Einaudi, 1991.

[2] Jacques-Louis David, Bonaparte franchissant les Alpes au Grand-Saint-Bernard, 1801, olio su tela, Musée National du Château de Malmaison. Si tratta dell’originale, di cui furono in seguito prodotte da David e dal suo atelier altre quattro copie, distinguibili tra loro per alcuni particolari del destriero e del mantello.

[3] Andrea Appiani, Napoleone Primo Console, 1803, olio su tela, Bellagio, Villa Melzi, Collezione Gallarati Scotti.

[4] Renaud Temperini, Il Neoclassicismo, in La pittura in Europa. La pittura francese. Tomo secondo, Milano, Electa, 1999, pp. 581-651. A proposito della «verità storica», la scheda dedicata al dipinto sul sito del museo (www.chateau-malmaison.fr) suggerisce che Bonaparte, «comme tout un chacun, […] dut se contenter d’un mulet pour passer les Alpes».

[5] «Ritrasse Napoleone a matita in un disegno […] e fu ammesso immediatamente nella sua cerchia (numerosi i ritratti di Napoleone, fra cui quello della collezione Melzi del 1803 […]). […] Invitato a Parigi nel 1804 per l’incoronazione di Napoleone conobbe la cerchia famigliare e degli amici dell’imperatore e anche il pittore David, suo ammiratore» (Isabella Marelli, Andrea Appiani, voce del Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. L’Ottocento. Tomo secondo, Milano, Electa, 1990).

[6] Sui lineamenti idealizzati cfr. Percorsi multimediali, in Alberto De Bernardi e Scipione Guarracino, La conoscenza storica, Milano, 2001, Paravia Bruno Mondadori Editori; http://www.pbmstoria.it/unita/04474n-01cs2/percorsi/txt/0818.php.

[7] Sergio Romagnoli, commento a Ippolito Nievo, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, p. 392; il passo è citato anche da Simone Casini nel commento della sua edizione critica delle Confessioni, edizione di riferimento per il presente lavoro; da essa saranno tratte tutte le citazione dal testo nieviano: Ippolito Nievo, Le confessioni d’un Italiano, a cura di Simone Casini, Parma, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, 1999; sarà in seguito indicata come CA 99.

[[8] «“Questa è poesia” disse Sistori.

“Oh, certamente” disse Nievo. “Ma per far prosa vi dirò, e il generale vorrà perdonarmi, che non mi piace questo barone; e non mi piacciono i siciliani come Cri…”.

Garibaldi fece un gesto reciso “torniamo alla poesia” disse».

Leonardo Sciascia, Il quarantotto, ne Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1958; ora Milano, Adelphi, 1992, p. 170; corsivo mio.]

[9] CA 99, commento, cap. XX 135.

[10] CA 99, cap. I 2.

[11] Maryse Jeuland Meynaud, Poetica dell’umorismo ne «Le Confessioni» di Ippolito Nievo, in «Critica letteraria», IV, I, 11/1976, p. 37.

[12] Una scelta, divenuta pressoché canonica, è stata operata in Ippolito Nievo, Tutte le opere narrative. Volume secondo. Le confessioni d’un Italiano – Scritti vari, a cura di Folco Portinari, Milano, Mursia, 1967.

[13] Alessandro Manzoni, I Romanzi. Volume secondo. Tomo primo. I Promessi Sposi (1827), Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2002, p. 388-389.

[14] Il corsivo è in CA 99.

[15] A questo riguardo è necessario accennare anche alla labilità della medesima categoria dell’umorismo: per un’interpretazione complessiva del fenomeno, ne occorre una formulazione compiuta, per ora ancora mancante – restando i numi tutelari di riferimento Bergson, Freud e Pirandello (e, in seguito, tra gli altri: Breton, Bachtin e Propp).

[16] Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo, Torino, Einaudi, 1958.

[17] Aa. Vv., Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, a cura di Giancarlo Mazzacurati, Pisa, Nistri-Lischi, 1990; e Giancarlo Mazzacurati, Il fantasma di Yorick. Laurence Sterne e il romanzo sentimentale, a cura di Matteo Palumbo, Napoli, Liguori, 2006.

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